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Un Papa: l’espressività, dallo spazio topologico della velocità

di Alberto Gianquinto, phil.

in “Ennio Calabria. La forma cerca forma

Rendina Editori, 2002
Ennio Calabria – La forma cerca forma – 2002

Guardando al lavoro teorico di Winograd e Floresi possiamo sostenere che il rapporto con gli oggetti non sia preliminarmente ‘rappresentativo-raffigurativo’ (o ‘denotativo’ o ‘espressivo’, a seconda dei rispettivi linguaggi, dell’immagine, della parola o del suono), ma di tipo pre-linguistico, costruito sulla familiarità e in empatia con le cose; una identificazione ‘affettiva’, che viene interrotta per i più diversi motivi, lasciando emergere allora (e solo allora) l’esigenza della rappresentazione (o denotazione o espressione) ‘simbolica’: l’immagine (o parola o suono) viene a quel punto generata ‘con funzione di simbolo’ per effetto e in sostituzione di questa condizione di rottura della relazione identificativa con le cose, ma con la conseguenza, tuttavia, che tutti gli elementi del ‘contesto oggettivo’ (pre-linguistico) vengono a cancellarsi nell’atto della simbolizzazione, che in tal modo assume carattere e valore ‘riduttivo’ (o più riduttivo), rispetto all’originari spessore di relazioni pre-linguistiche con gli oggetti.

Dico questo per mettermi nella condizione migliore per ‘scendere’ a quel piano pre-linguistico dell’atto creativo, che tanta parte ha nell’elaborazione riflessiva e produttiva della pittura di Calabria.

La ‘generazione’ simbolica è l’atto creativo di una semantica e di una sintassi del linguaggio. E l’atto creativo – nella ‘singolarità’ sua, che lo pone, al di fuori di ogni norma costituita, in una ‘lateralità’ di prassi e pensiero – rompe precostituiti valori e, nel carattere ‘provocatorio’ delle determinazioni dei suoi schemi linguistici, istituisce valori simbolici che solo a posteriori potranno trovare introiezione in una cultura condivisa, che riconduce (o per la prima volta o una volta ancora) lo ‘scarto’ prodotto alla norma e alla cosiddetta ‘logica del conosciuto’.

Ma – teniamolo presente – la ‘generazione’ simbolica avviene pur sempre su un terreno pre-linguistico, a partire da esso. È in questo passaggio, in questa transizione, dall’immediato empatico dell’identificazione pre-linguistica alla relazione simbolica,ii che può nascere e si articola l’ambito di una poetica, che si trascina dietro il ‘contesto oggettivo’ che opera collateralmente al più restrittivo spazio simbolico. Qui, da questa terra di nessuno, la poetica – che viene alla luce e prende corpo nel prodursi di uno spazio di significati e di un ritmo temporale delle loro successioni sintattiche – trova poi anche la possibilità di non necessarie cristallizzazioni nelle ‘regole’ di un’estetica, di una Weltanschauung ‘teoretica’, che consolida la presunzione di essere e di porsi come necessaria ‘condizione’ di distinzione da altre estetiche e poetiche, a quel punto addirittura concorrenti, e pertanto come condizione presunta per una più profonda comprensione delle diversità di intenzioni artistiche.
   Penso che queste sovrapposizioni teoretico-estetiche sullo spazio della poetica generativa non siano ‘essenzialmente’ necessarie alla comprensione critica; e per questo voglio tornare al sottostante terreno morfopoietico. L’elaborazione ‘concettuale’ dell’opera non è, insomma, un atto primario, anzi è solo collaterale e accessorio e ausiliare, anche nell’ambito della comprensione critica. Questa tesi non è una semplice considerazione, ma il risultato conseguente a riflessioni portate nel campo delle neuroscienze, della psicologia e financo dell’IA (intelligenza artificiale).

L’opera di Calabria non è sussumibile sotto la categoria di arte concettuale. A questa appartengono le opere che assumono la valenza di un messaggio ‘critico-concettuale’, non in quanto contenuto portato ad ‘espressione’ dalla forma dell’opera, attraverso di essa, ma in quanto identificato nella forma intesa come ‘mezzo’ (ad esempio: la tela): la forma, allora, ‘è’ il contenuto, anziché esprimerlo. Questo paradosso di autoreferenzialità della forma non è consentito al linguaggio figurativo, ma solo a quello verbale, ed è pertanto un errore, un equivoco in cui cadono l’artista e la critica. In effetti, se l’arte astratta, esplicitamente priva di contenuto, non può che trovare nella sua forma il suo contenuto, quella ‘concettuale’ ritiene di assegnare alla forma un contenuto altro, che in realtà non ha (né la forma, né la tela sono concetti): l’errore è di pensare un’idea come opera figurativa, non di portarla ad espressione attraverso l’opera; l’errore è di pensare il concetto come materiale reale o formale, non come espressione mediata nell’opera.

Quel che accade in generale è che il concetto appartiene ad un ‘contesto soggettivo’ dell’artista, ‘accanto’ al contenuto di una forma. Ad esempio, l’idea del tempo e della velocità nel pensiero di Calabria vivono sui due piani di un pensiero e di una forma; e per questo la sua opera non è ‘concettuale’. E qui voglio aggiungere che, non solo in questo autore ma sempre e in generale dunque, un ‘contesto soggettivo’ di concettualità non è ‘essenziale per la comprensione’ delle opere: tutte le categorie, tutti i concetti filosofici possono essere e sono espressi nella forma, attraverso di essa; quindi debbono e si possono riconoscere in essa. Quando così non è, si slitta nella cosiddetta ‘arte concettuale’ e nel suo errore di identificazione di una semantica nella presunta sua sintassi.

Terreno mitopoietico, si diceva: il terreno giusto per raggiungere e toccare quel livello empatico della critica, che è di comunione e di comprensione (per prima cosa) d’uno stato di ‘affettazione’, della condizione – cioè – dell’essere ‘affetti’ dal mondo degli oggetti; lo stato, insomma, dal quale muove il processo della creazione. Giusto terreno, per una critica coinvolgente nell’esperienza e nell’avventura poetica dell’artista, perché terreno indipendente e antecedente ad ogni sua codificazione concettuale, estetico-metafisica. 

Solo su questo piano (che non esclude peraltro il supporto della vissuta testimonianza), a mio vedere, è possibile seguire il percorso creativo di Calabria, anche come condizione di confronto e di distinzione entro un tessuto che linguisticamente può rivelarsi apparentemente conforme e sperimentato, comune ed unitario con quello di altri artisti contemporanei, che battono tuttavia strade diverse. Ne è il caso, quando questa pittura figurativa viene messa, di volta in volta, a confronto con l’opera di Pollock o di De Kooning, di Bacon o di Giacometti e di Schifano o, per altri versi, specialmente nel caso di questa “serie di Woityla”, anche di Scipione e della scuola romana.  

Prendiamo le mosse da quell’aspetto che voglio chiamare la dimensione post-futurista della creatività di Calabria. Questa si lega ad una intuizione complessa del significato della ‘velocità’ nel mondo contemporaneo e ad una versione dello ‘spazio’ distante da quella che segna il futurismo storico di un Balla o di un Boccioni: versione cubista della velocità e definizione plastica attraverso uno spazio pluriprospettico di simultaneità, nel futurismo; versione originale di spazio ‘topologico’, invece, delle geometrie non-euclidee (quelle del foglio di gomma), di quello spazio ‘variabile’ e determinato da attrattori sulla superficie, proprio come lo sono gli spazi gravitazionali della relatività generale, per quel che riguarda il profilo post-futurista di Calabria. Qui il senso del tempo non è più profondamente debotore dell’intuizionismo e del vitalismo bergsoniano, o di Nietzsche o del pensiero politico di Sorel, ma piuttosto di un intricato background di sensazioni, di uno stato esistenziale e di malessere che si condensa in un clima di dissoluzione del pensiero politico-sociale, di modi di pensiero post-idealistici, di crisi tecnologica, di collasso linguistico in una società di comunicazione di massa, portatrice di messaggi ad una dimensione. 

Il contesto soggettivo (l’insieme del sapere e della cultura introiettata) in cui si costituisce l’ambiente pre-linguistico favorevole all’atto creativo e, in esso, quella relativa poetica che assume la morfopoiesi della velocità del tempo attraverso spazi geometrici che disgregano la morfologia tridimensionale e l’orizzonte prospettico – prima ancora di essere insieme semantico sintatticamente organizzato, cioè linguaggio simbolico strutturante una classe di ‘segni’ (un codice) – è spazio pre-simbolico, puro contesto di stati psicofisici, non ancora ‘raffigurativo’, assicurato da una rete neurale che garantisce ‘in output’ la costruzione della raffigurazione, generando l’analogia di un mondo (esterno o interno, per così dire mentale) – il suo parallelo simbolico – e che è garantito ‘in input’ da un contesto oggettivo sussunto (che fornisce conoscenze di sfondo e marginali, da cui vengono distinti e scelti gli schemi essenziali, a confronto dei quali opererà l’atto creativo). 

Il ‘contenuto’ dei simboli che, come linguaggio sematicamente dotato e sintaticamente strutturato, emergono dallo spazio pre-simbolico, è tutto dentro questo spazio pre-linguistico: è ‘schema’ pre-concettuale, pre-raffigurativo, pre-espressivo, che viene ‘trasdotto’ in un codice; è il ‘significato’ (il mondo oggettuale) del simbolo: un mondo, che non ha forma concettuale, non ha forma filosofica, non ha valori metafisico-estetici, ma solo la forma d’una ‘connessione di rete’ neurale, che agisce come ‘mente’ e come ‘corpo’ in un ‘ambiente’.
   Questo ‘contenuto simbolico’, visto ancora dal suo lato pre-simbolico, ha già in sé contenuta e costituita la poetica che gli viene dall’appercezione (nel suo senso kantiano) e dalla correlata propriocettività: ha già ‘impresso’ e acceso (nella rete) quanto ha ricevuto dal contesto esterno ed è stato elaborato dal contesto interno, sia come ancòra informale ‘comprensione (critica)’ del mondo, sia come insieme di pulsioni e desideri e attese.

La questione, a quel punto, non è il ‘valore intrinseco’ della Weltanschauung attorno al tempo e alla velocità, espressa da Calabria sul piano concettuale, ma l’immersione del ‘contesto soggettivo’ nel ‘contesto oggettivo’ e l’interazione tra ‘mondo’ e totalità psico-fisica dell’artista.

La ‘visione’ post-futurista dello spazio, in Calabria, di grande interesse per i suoi esiti formali, non è una ‘filosofia’ del tempo e della velocità, così come non lo è stata neppure il futurismo dei Balla: quella visione è immediatamente una ‘poetica’, la sua poetica, il suo spazio di significazione: non concetto, non una ‘metafisica estetica’.

Se Calabria elabora una sua versione concettuale di quello spazio che, come ho detto, considero topologico, e se articola e sviluppa una triplice fenomenologia della ‘velocità’ – quella dell’evoluzione del mondo reale e della sua storia, quella dell’atto della creazione artistica, necessario non solo ad inseguire, ma ad anticipare il dinamismo del mondo esterno, e quello della manipolazione esecutiva, necessaria invece a tenere il tempo e ad esprimere quanto accade nel corrispondersi di una ‘interiore’ creazione a un divenire veloce delle cose – si sa bene che si tratta di velocità diverse, non solo in senso cronologico, ma anche in senso funzionale.iii Ma non è la ‘conoscenza’ delle funzioni e dei tempi effettivi (relativi a quelle velocità) ciò che incide sui suoi impulsi creativi, quanto invece una soggettiva consapevolezza, come esperienza vissuta delle relazioni fra quelle velocità. Questo accadere, in effetti, genera ansia di cogliere e d’inseguire il tempo che scorre fuori veloce, genera la rapidità reattiva di risposte selettive, l’affastellarsi quasi-caotico d’impulsi creativi, una manualità che si riversa con modalità sintattiche quasi-casuali e apparentemente caotiche sulla tela, che producono speculari effetti materici e coloristici. Matericità e colore, esito di quella disperata e furiosa manualità, sempre sconfitta dalla velocità dell’impulso creativo, nell’inseguimento del divenire reale: un esito, anzi, che s’iscrive interamente in una spazialità topologica deformante.

Scendendo a livelli più analitici nella ‘poetica’ di Calabria, quelli della manipolazione linguistica e quelli della manualità e della gestualità operativa sui ‘caratteri’ del linguaggio – colore, luce, composizione, matericità e plasticità, spazialità fisica e ottica, dinamica temporale (movimento), espressione – là dove si determina l’effettiva novità e la distinzione rispetto ad altri artisti, ai quali una superficiale critica li potrebbe associare a comuni e già battute ricerche formali (poniamo: Scipione e la scuola romana, per quel che riguarda il ritratto, se non certo colore e plasticità, ma poi Bacon, Pollock o Schifano, per alcuni aspetti espressivi, dinamici, compositivi e materici di manipolazione dei materiali, e i futuristi stessi, Boccioni compreso, per spazialità e dinamiche dei movimenti, o perfino Warhol nella sua contestazione del mondo della merce): ciò che non credo valido fare è considerare centrale e ‘diversificante’ – anzi: condizione necessaria della critica contemporanea (anziché supporto condizionale e opzionale) – il suo nucleo teoretico, l’approccio filosofico, la sua autoriflessione metafisica; non valido aggrapparsi a questo per ricostruire un’indagine critica che accosterebbe ineluttabilmente l’esperienza artistica a modi già sperimentati della cosiddetta ‘arte concettuale’.

Abbiamo visto come il tempo e la velocità, nell’opera di Calabria, vengono a generare uno spazio ed una sua geometria profondamente diversi da quelli prodotti dal futurismo ‘storico’ dei Balla e dei Boccioni. Una distinzione riconoscibile non sul terreno delle sue affermazioni filosofico-concettuali, ma direttamente nello spazio semantico e nella sua strutturazione della sintassi: semantica, che è di radicalizzazione in chiave negativa, drammatica e pessimistica del peso che la velocità ed il tempo hanno sulla vita e sull’artista: non c’è più positività, non c’è l’ottimismo ideologico che attraversa gran parte del futurismo, non quelle simpatie per il mondo sociale di allora e per il progresso. Questi nuovi valori semantici li si desumono e trovano espressione linguistica (al di qua e prima di ogni dichiarazione verbale) nella nuova sintassi dello spazio.

Ma il pessimismo dilagante, il sospetto attorno alle ideologie del progresso, non si confonde con analoghe posizioni di reazione al mondo: ad esempio, la matericità ed i cromatismi non insorgono da impulsi liberatori di positività, come nel primo Pollock o, come nel Pollock successivo, da esigenze di espressionismo magico-simbolico e di simbologia sessuale introdotte sotto l’influenza delle culture aborigene; la tecnica del dripping, di De Kooning e di Pollock stesso, è quasi assente in questa pittura, pur essendo forte il peso della manualità e di una certa gestualità nella gestione del colore, del pennello e della spatola (che mai raggiungono però la separatezza dell’action painting, perché la tensione drammatica non sbocca e non si conclude in esiti puramente informali): le concrezioni materiche e cromatiche si indirizzano nel drammatico tunnel di una ricerca figurativa che deve comunque dare conto formale della oggettività (sia pure del tutto mentale) della ‘caduta’ del mondo. Lo spazio semantico assume inconfondibile forma attraverso la funzione materica e plastica e cromatica, che discendono da una spazialità ‘riflessiva’ della dinamica temporale, del movimento e dell’espressione. Si può anche dire che la cosiddetta ‘composizione psicodinamica’ di De Kooning (un’azione gestuale che organizza le energie immanenti al quadro) influenzi la composizione di Calabria: ma qui la situazione è ben altra – diversa – perché determinante è piuttosto una psicodinamica intrinseca alla geometria dello spazio, anziche agli impulsi di casualità informali. L’attrattore psicodinamico che dà unità compositiva al quadro non è separabile, in Calabria, dal fondamento temporale, e quindi geometrico-spaziale, che è il presupposto del ‘vissuto’ morfopoietico: l’unificazione compositiva deve, per così dire, seguire la superficie geometrica generata.

Non è da credere che il senso di spaesamento e di afasia dell’uomo moderno, introiettato come ‘senso culturale’ e ‘contesto soggettivo’, sia espresso da Calabria – con una identità di concetto e forma – in termini di caos, casualità o confusionalità, che testimonierebbero della frantumazione del linguaggio pittorico (soprattutto nella sua composizione e spazialità, nelle interazioni coloristiche, nella manualità sulla tela, nel movimento e nell’espressione stessa): tutt’altro. Mettamo intanto in chiaro i termini.

‘Casuale’ è un evento che si presenta solo con una certa probabilità, mentre ‘caotico’ è un accadere senza possibilità di previsione (a meno di non approfondire all’infinito le condizioni inziali di tale accadere) e si pone al confine fra determinismo e indeterminismo; ‘confuso’ o ‘confusionale’ è, psicologicamente, uno stato soggettivo alterato della coscienza e/o del comportamento.

La spazialità di Calabria non è ‘caotica’, ma allusiva del caos culturale e ambientale che lo circonda: per questo utilizza spazi topologici e le dinamiche conseguenti, che condizionano la composizione entro la cornice e determinano, in certi punti ‘sensibili’ sulla tela, l’esistenza di veri ‘attrattori’ che fungono da centri di alterazione dello spazio, dell’espressione e della concentrazione materico-plastica del pigmento, da centri di distribuzione del colore-luce.

Nella serie di Woityla l’evidenza funzionale dell’attrattore (sul quale torno ancora, più diffusamente e analiticamente) è quasi sorprendente: tutte le componenti sintattiche (i vari caratteri del linguaggio) confluiscono a volta a volta sul volto, mettendo allora sullo sfondo la gestualità, o sul gesto, lasciando che sia ora il volto a retrocedere sullo sfondo, e facendo sì che le curvature dello spazio si dispongano in relazione a queste diverse centralità attrattive, che stanno a significare, o nell’espressione o nella ieraticità rituale, una duplice presenza di questa figura papale: quella essenziale e trascendente, simbolico-rituale e quella esistenziale, della sofferenza.

Queste ‘intuitive’ decisioni non sono cieche, casuali, ma insorgono al livello di impulsi creativi (totalmente, e non solo al parziale livello di una manualità stravolgente significati) e assumono il ‘senso’ della caoticità e della afasia confusionale: sono cioè allusive. La manualità dell’artista cerca di ordinare – sotto gli impulsi molteplici e pluridirezionali dell’atto creativo – un non-senso, che proviene da un universo stravolto e che (nell’ordine di una complessità linguistica prodotta attraverso e nella stessa manualità) assume il senso del messaggio (quel sasso nello stagno, a cui Calabria allude, della cui onda di significazione non è dato dire se e da chi sarà accolta: aposteriorità di rinormalizzazione, dopo la provocazione del pensiero laterale). La manualità è già l’atto sintattico della forma della significazione, non è immediato caos.

Invece l’opposizione dichiarata al linguaggio digitale è e resta concettuale, cioè opposizione non-figurativa, tanto quanto concettuale può essere l’opposizione a un mondo mercificato: non si configura formalmente. È l’arte stessa, infatti, per altre vie formali, quella che gioca qui la sua partita decisiva con la cultura dominante; non una filosofia: in questo senso (ed esattamente in questo) non si può più dire che l’arte sia ‘inutile’ (secondo il valore crociano del termine), ma neppure che debba non esserlo (nel senso delle estetiche marxiste). La necessità – che viene opposta al ‘caos’ – di una ‘comunicazione’, nonostante la ‘complessità’ del messaggio, è assolutamente presente nell’intenzione di Calabria, ma, con essa insieme, anche la necessità del ‘livello’ culturale del messaggio stesso, cioè la funzione maieutica dell’arte, non di un ‘concetto’ su di essa.

Si è detto: manualità già sintattica e frantumazione – insieme – di linguaggio pittorico, ma in quanto ‘allusiva’ d’uno stato, sia soggettivo che reale-oggettivo: non c’è dunque contraddizione in ciò; non manualità casuale e caotica, non manualità oggettivamente confusionale, non frantumazione oggettiva, ‘in sé’, del linguaggio pittorico; ché, se così fosse, non esisterebbe possibilità di uscirne fuori. Chi e come potrebbe ‘liberare’ infatti il senso rimasto imprigionato nella frantumazione e nel caos linguistico? Cosa potrebbe portar fuori (nella cultura) quel senso, se ciò fosse per definizione ed a priori impedito all’espressione linguistica? Gestire un senso che è imploso in se stesso e appellarsi pertanto ad una semantica direttamente ‘fisiologica’, come si può essere tentati di credere stando ad alcune dichiarazioni di Calabria: a questo livello, non solo cesserebbe ogni compito del critico, ma anche la comunicazione dell’opera sarebbe preclusa: se la creatività dovesse essere un costitutivo accadere contraddittorio (d’una contraddittorietà senza soluzione sintetica, per dirla con Hegel), non resterebbe che vivere la dialettica della scissione,iv incomunicabile come forma perché non-più-formale, ed al critico condividere un labirinto reale, non la sua metafora di inconcludenza. L’autodissoluzione linguistica, come ‘specchio’ della perdita di senso della realtà, ha bisogno di un meta-livello, di un metalinguaggio per esprimere e comunicare quello stato di cose: non può autoesprimersi. L’arte ‘informale’ stessa, nella sua radicale separazione del contenuto dalla forma e nel suo rifiuto d’ogni assetto formale nell’opera (appunto per questo arte di puro contenuto informale), pensa di affidare direttamente al contenuto il senso e la comunicabilità, mentre invece tacitamente o inconsapevolmente assegna all’assenza di forma il valore metalinguistico (formale) di un affidamento del senso e della comunicazione al puro contenuto.

La comunicazione non è impossibile, quindi neppure il ritorno critico: quando lo fosse, non sarebbe più espressione e comunicazione; non sarebbe linguaggio. Affidare per via collaterale e parallela quel compito al ‘concetto’, non rappresenta una soluzione: rimane sì il concetto, una filosofia, ma al posto dell’arte.

Il pensiero laterale può essere compreso, sebbene a posteriori e lo è, a condizione e nella misura in cui l’arte offre validi argomenti, accettabili nel contesto dei problemi della società. La giusta presunzione della forma, di avere un messaggio da consegnare, non basta e non è per sé garanzia di comprensione del mondo e di una qualche mimesi del reale. Spessore e consistenza dell’artista non bastano a spiegare le cose e non possono pretendere, a priori, la condivisione sociale; la creatività va comunque condivisa, sempre che la società (e il suo ‘livello’) intenda farlo e vi riesca e sempre che l’artista concorra, operante in quella direzione.

Rosenscheinv, Clarkvi e altri, nelle ricerche condotte attorno alle relazioni che intercorrono tra percezione, conoscenza e azione, presuppongono indirettamente l’esistenza dello spazio pre-simbolico, qui menzionato, in cui ambiente, corpo (percezione e sensibilità etero- e propriocettiva) ed azione (apparato motorio e quindi manualità) condizionano la relazione ‘analogica’ che si stabilisce tra mondo e conoscenza: questa conoscenza di sfondo, pre-simbolica, opera in Calabria come spazio semantico, humus e magma dell’elaborazione simbolica, propria delle forme sintattiche. Eppure tutto ruota attorno al senso di una rottura epocale, di un vortice comunicativo vuoto d’informazione, di una generale crisi esistenziale e di invasione tecnologica, che minano dal di dentro la possibilità stessa di un linguaggio figurativo. Velocità, senza tempo di riflessione; relativismo, senza punti di riferimento; afasia e decontestualizzazione, che dominano lo spazio semantico (e assumono caratteri di concettualizzazione e di vera e propria strutturazione estetico-filosofica) riempiono la ‘contestualità’ dell’artista e diventano conoscenza di sfondo. L’elaborazione dei simboli in forme sintattiche (vale a dire in un linguaggio comunicabile) può tuttavia realizzarsi ancora – nonostante il contenuto disgregante (per il mondo simbolico) esibito dallo spazio pre-simbolico e dal contesto soggettivo – come conseguenza della funzione ‘analogica’ assegnata al linguaggio costruito come simbolicità di un mondo di per sé privo di ‘senso’. Come s’è già detto, il ‘contenuto’ del simbolo (il suo ‘significato’) è uno ‘schema’ che ha la forma di una connessione neurale, ‘trasducibile’ in simbolo e forma: la sua ‘caotica informalità’ è trasdotta in strutture ‘formali’ con funzione analogica.

Già nel magma e nell’humus pre-simbolico operano gli ‘attrattori’, quelle configurazioni alle quali lo spazio semantico tende, come ad una memoria del sistema,vii e che risalgono fino alla forma, nella sintassi del linguaggio. Questi attrattori sono per così dire ‘riconoscibili’ (nella semantica dell’artista) come gli ‘schemi’ che diventano determinanti dell’agire e del pensare creativo e sono poi i punti caldi della strutturazione sintattica di quello spazio. La nuova forma ritrattistica del papa è fissata da questa relazione tra spazio pre-simbolico, affioramento simbolico-semantrico e correlato strutturale-sintattico in cui i segni salgono a pieno titolo al livello di simboli. Le componenti sintattiche, in effetti, confluiscono, nella serie dei dieci quadri, come s’è detto sopra, alternativamente sul volto o sul gesto (gettando sullo sfondo corrispettivamente la gestualità o il ‘ritratto’), a seconda che l’‘attrattore’ semantico sia la pulsione ieratica e rituale o l’espressione figurativa, cioè a seconda che domini la figura come simbolo di una chiesa o come rappresentazione esistenziale della sofferenza del mondo; e lo spazio geometrico si curva in relazione a queste diverse ‘centralità’ di tipo ‘attrattorio’.

Nuova forma ‘ritrattistica’, s’è detto, che va perciò confrontata con altre, apparentemente vicine: Scipione, El Greco, Bacon o Soutine.
Scipione, per esempio, nel Ritratto del Cardinale Decano o nel contemporaneo Il Cardinale Vannutelli nella camera ardente, dove le figure sono ritratte in un vasto contesto che fa da ‘contropiano di senso’, per evidenziare ancor più, fino all’estremo, l’espressione di un volto toccato dal segno della fine e dove, come sottolinea Di Genova,viii trasuda morte una morbosa aura d’ambiguità di una vita. Atmosfera, che si respira ancora nell’Entierro del conde d’Orgaz di El Greco, di impotente paura di fronte alla morte e di abbandono, quindi, nelle braccia della chiesa e della fede. E Bacon, ancora, nello Studio da Innocenzo X, dove, nonostante la distorsione e lo sfiguramento d’un frapposto schermo glutinoso, di forte carica espressionistica, il volto è sempre ancora raffigurazione diretta e tridimensionale, ‘resa’ espressiva. Così anche, nelle sue differenze, il Chierichetto di Soutine.

Qui, invece, la raffigurazione, non solo si concentra sul semplice volto o su un gesto persino parziale, ma essa non ‘rappresenta’ più (in alcun modo) la ‘resa’ di una diretta espressività della figura: piuttosto un’espressività indiretta, che passa interamente attraverso la curvatura dello spazio topologico ed è segnata dal peso energetico dei suoi ‘attrattori’. Se non si coglie questa differenza, scompare l’assoluta novità formale di questo ritorno apparente alla ritrattistica. Implosione massima del ‘senso’ nel brandello di figura papale, colta non nella ‘identità’ fisiognomica, ma nella ‘ricostituzione’ fisiognomica per il tramite del generale spazio di ‘senso del mondo’, espresso da uno spazio geometrico che simula la velocità e il suo tempo.

Si è sostenuta l’istanza di una creazione necessariamente inconsapevole e indefinibile (di una creazione senza sapere): se s’intende con questo che l’atto creativo, essendo laterale alla norma, non ha una sua ‘logica’ condivisa, non c’è dubbio che l’assunzione di una nuova norma debba ancora avvenire nel momento della creazione. Ma se s’intende che la creazione è un atto privo di contesto oggettivo e soggettivo e mancante della connessione tra sensibilità etero-propriocettiva, apparato motorio e ambiente, allora mi pare che non si veda come il creare sia un’inconsueta forma del progettare, di un solitario progettare già al livello degli spazi pre-simbolici, dove gli effetti dell’agire sono ‘soggettivamente sentiti’ come sostenuti o sostenibili, se non certo garantiti, da un ricordo di effetti vissuti in contesti (esterni ed interni) a livelli inferiori o ‘superati’ delle forme, di fronte ai quali (e con retroazione sui quali) opera l’atto creativo. Si tratta di istanze che appartengono all’intenzionalità dell’artista? Ma che senso avrebbe affidarsi a queste motivazioni e intenzioni, per prenderle come base concettuale e iconologica dei contenuti? Non sarebbero penalizzati artisti che, fedeli al linguaggio dell’immagine, non riterrebbero necessario ricorrere a quello verbale per sostanziare di base concettuale-iconologica il lavoro? E gli artisti sordo-muti? Non verrebbe a spostare l’arte il suo baricentro sul terreno del linguaggio verbale e non avrebbe essa fondamento puramente concettualistico? Quelle motivazioni, quelle intenzioni possono mai diventare concettuale giustificazione e spiegazione del valore artistico del prodotto?

Lucio Fontana, per esempio: il suo ‘spazialismo informale’ ha una concezione dinamica della forma (già espressa in Boccioni) ed i materiali e i gesti eseguiti (un taglio sulla tela o lo sfondamento di un foro) aprono, come è stato detto, nuovi confini di conoscenza ed emozione.ix Ed anche Constantin Brancusi: anch’egli genera leggi compositive pure ed essenzialità di forme, in una ricerca di forma-tipo (o forma genitrice), che guarda, di volta in volta, alla scultura egizia o cicladica o messicana. Come distinguere tali opere da uno scarto, da una semplice tela tagliata o da una scoria d’industria? Solo a posteriori la critica è in grado di collocare l’opera sul versante dell’arte o dell’evento culturale o fuori del tutto da questi contesti. Come si procede? L’appoggio al materiale verbale dell’artista va certo preso in considerazione, ma non costituisce alcuna ‘prova’ del valore artistico. Occorre procedere al confronto tra contesto soggettivo del critico, sulla base del quale avviene una valutazione del presunto valore ‘formale’ dell’opera, e le restanti informazioni (concetti estetici e ‘dichiarate’ indicazioni iconografiche), per deciderne il loro valore funzionale, a fronte dello spazio di senso fornito dalla cultura. Quando l’opera entra in quello spazio, ne viene riconosciuto allora un ruolo culturale. È poi la società a sussumere l’artefatto come opera d’arte e non solo come evento di cultura. È così, direi, che Fontana o Brancusi (e tanti altri casi limite dell’iconografia contemporanea) escono dal caso d’un brandello strappato senza intenzione o d’un materiale residuo.

Quel che conta dell’opera non è una metafisica estetica, a cui ricondurla, ma la sua poetica: non il soggetto creatore, ma l’oggetto, il suo linguaggio.
   Il critico che risale allo spazio di generazione creativa di Calabria trova questa dinamica di modularità sintattiche che riflette in senso strettamente analogico una dinamica della mente e si traduce in una ‘poetica’ figurativa del tutto nuova (dove mai la si è incontrata a tutt’oggi?) di un ritratto come risultante da uno spazio la cui fonte generativa è il senso del tempo e della velocità che emerge dal terreno pre-simbolico del riferimento al mondo.

  • I T.Winograd, F. Flores, Understanding Computer and Cognition. A New Foundation for Design, Ables publ. Corp., Norwood 1986, tr.it.
    Mondadori, Milano, 1987.
  • II Relazione di immediatezza pur sempre, seppure diversa, di parola e cosa, di immagine e oggetto, di suono e stato espresso, ma tale ancora, rispetto alla definitiva rottura – o mediazione – prodotta dal pensiero scientifico.
  • III La prima velocità, se ha peso sensibile in certi settori della realtà (comunicazione, trasporti, scambi economici e culturali), non rispecchia lo stato generale ed effettivo delle cose: la sua ‘mappa’ è a pelle di leopardo e non lascia prevedere uniformità, che presupporrebbero ‘globalità’ che non convengono ai modi capitalistici di produzione (ai quali si possono contrapporre piuttosto obiettivi di ‘globalizzazione’, come tendenze e fini, i cui valori ideologici vengono valutati sia pro che contro). Di cosa si parla, in effetti? Della cittadella del capitale e del suo ‘cuore’ pulsante? O del suo complessivo sistema, che organicamente contiene un terzo ed un quarto mondo e tutte le sacche della miseria (senz’ala luce e la sua velocità)? Della cittadella del capitale e del suo ‘cuore’ pulsante? O del suo complessivo sistema, che organicamente contiene un terzo ed un quarto mondo e tutte le sacche della miseria (senza la luce e la sua velocità)? C’è invece una ‘oggettiva’ velocità d’evoluzione, una ‘biologica’ velocità di sopravvivenza della specie ed il ‘ritmo’ di una fitness che esprime soltanto valori adattativi. La sua soggettivistica forzatura sotto spinte ’futuristiche’ presuppone un ‘disegno’ provvidenzialistico della storia e nella dinamica della società, che è del tutto indimostrabile ed arbitrario.
    La velocità creativa è cronologicamente assai più alta di quella biologica ed è di ordine diverso: la prima coinvolge dinamismi sociali assai estesi, la seconda riguarda la rete neurale. Della prima si può sapere abbastanza; della seconda si tenta di capire qualcosa proprio grazie alle simulazioni fornite dai complessi algoritmi dell’elaborazione computazionale e dell’intelligenza artificiale, che vengono a priori contestati. Si può stimare che, se il tempo della comunicazione neuronale è dell’ordine del miliardesimo di secondo, posto quello della trasformazione sociale pari ad una giornata di diecimila secondi, uguagliando all’unità il primo, il secondo diventerebbe maggiore del tempo che ci separa dal big-bang (circa quindici miliardi di anni). Insomma, due misure praticamente incomparabili.
    La velocità della manualità operativa è legata al meccanismo di azione-reazione del sistema muscolare-nervoso ed è già enormemente più lenta di quella neuronale, anche se enormemente più veloce quando posta al confronto con l’ordine dell’evoluzione biologica e storico-sociale.
  • IV M. Perniola, Le ultime correnti dell’estetica in Italia, in Storia della Letteratura Italiana. Il Novecento. Scenari di fine secolo, a cura di E. Cecchi e N. Sapegno,direzione e coordinamento di N. Borsellino e L. Felici, Garzanti, Milano, 2001, p.p. 37-76.
  • V S. J. Rosenschein, Formal Theories of Knowledge in AI and Robotics, in new Generation Computing,3, 1985.
  • VI A. Clark, Being There, MIT Press, Cambridge Mass. 1997, tr. It. Dare corpo alla mente, McGraw-Hill Italia, Milano 1999.
  • VII ‘Attrattore’ è un termine tecnico che intendo qui utilizzare in senso ‘analogico’ con quello della matematica: esso serve a descrivere il comportamento a lungo termine (quindi stabile) di un sistema dinamico, come qui per analogia è il caso dello spazio semantico: ogni punto di questo spazio è una sorta di vettore che ‘sta per’ uno degli stati dinamici del sistema (in uno spazio definibile quantitativamente, ogni vettore è la quantità che fissa lo stato del sistema); l’insieme dei punti configura lo spazio in questione e la dinamica dell’insieme è data dalla traiettoria dei punti-vettore. Il sistema tende nel tempo alle configurazioni definite dall’attrattore, cioè tende ad una forma di memoria del sistema, operante per la classe di sollecitazioni che determinano la configurazione dell’attrattore.
  • VIII G. Di Genova, Storia dell’arte italiana del ‘900 per generazioni. Generazione primo decennio, Ed. Bora, Bologna 1996, pp. 284-285.
  • IX CFr. in Enciclopedia dell’arte, Garzanti, Milano 1973, s.v.