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Per esplorare l’enigma, la violenza, la bellezza

di Mario De Micheli

in “Ennio Calabria

Vangelista editore, 1985

“Agisci in ogni dimensione del reale”

Goethe
Ennio Calabria – 1985

A partire dalla sua prima mostra personale ordinata a Roma nel ’58, alla Galleria La Feluca, la critica si è sempre e fittamente interessata di Ennio Calabria, anche, in più di un caso, quella critica che si può pensare più lontana dalle sue posizioni. Il fatto è che Calabria, sin dall’inizio della sua carriera d’artista e quindi lungo l’intero percorso della sua ricerca, ha rivelato una così folta ricchezza di motivi e una tale energia figurativa, che non poteva accadere diversamente. Da principio è stato soprattutto il suo straripante talento a muovere un simile interesse, ma in seguito, insieme col carattere evidente delle sue doti, a sollecitare il rapporto critico con le sue immagini è stata anche e particolarmente l’attualità dei problemi di cui le immagini delle sue opere apparivano e appaiono prepotenti metafore.

Da questa attualità e prepotenza, l’azione plastica di Calabria è inscindibile. Non sto certamente parlando di un pittore <<neutrale>>. Nella trama dei fatti, nelle circostanze immediate della storia, egli non può fare a meno d’essere implicato e coinvolto con la coscienza del protagonista o perlomeno con l’impulso del partecipante. C’è n lui una sorta d’insaziata avidità nei confronti di quanto gli accade intorno: una divorante, istintuale e cerebrale passione di conoscenza e di vita. Si tratta di una disposizione che in lui si manifesta con una forma implacata d’urgenza, con la necessità d fagocitare avvenimenti, notizie, segnali, per farne sostanza di un discorso inquieto, non mai riducibile alla discrezione di un linguaggio tranquillizzante, misurato, di <<buone maniere>>, in una parola acquiescente ai termini di una realtà accettata senza dibattito. Di qui, dunque, il suo comportamento creativo, il dilatarsi conflittuale delle sue immagini, il loro modo di proporsi assai spesso stravolto, urtante e aggressivo.

Considerazioni come queste, penso che siano indispensabili e preliminari ad un incontro con Calabria. In nessuna maniera si può davvero ritenerlo un pittore accattivante, docile alla ripetizione di una schema, alla definizione di una sola scelta espressiva. È tipico anzi di lui il prevaricare, rompere la regola che appena s’è data, passare e ripassare dall’una all’altra cadenza: da quella lirica a quella satirica, o elegiaca, o drammatica, e persino epica. Ecco perché talvolta appare sconcertante: per questa sua molteplicità di segno e di ispirazione. Ma in quali termini specifici si verifica dunque questa sua concitata disponibilità?

Sembra che la scoperta d se stesso, cioè delle proprie fervide inclinazioni, sia avvenuta abbastanza presto per Calabria. io non conosco i quadri dipinti prima del ’58, ma è certo che da questa data al ’61, egli aveva già individuato tutti i suoi temi: il tema della città, il tema politico, il tema della polemica culturale e quello della propria sorte personale, il tema dei sentimenti. Basta citare soltanto qualche quadro fra queste due date per rendersene immediatamente conto: I motociclisti, la Discussione, La giuria, L’Autoritratto. Ciò significa che a quest’epoca il nucleo poetico costitutivo della sua personalità si era già andato consistentemente formando.
Gli anni che hanno fatto seguito, sino a oggi, sono stati e sono anni di scavo e di crescita su se stesso, dentro a un processo che si è svolto, in ogni momento, dall’interno di tale nucleo e non per un’addizione di dati estrinseci, dipendenti unicamente da quelle che con garbata indulgenza vengono chiamate le <<oscillazioni del gusto>>. È un aspetto, questo, da cui non si deve prescindere prendendo in esame l’opera di Calabria, perché è proprio da qui, da questa primaria verità di fondo, che acquisisce forza e autenticità il ciclo delle sue immagini. Ma ciò s’intenda non solo come indizio di una sicura natura poetica a livello emotivo-esistenziale, bensì anche nel senso più preciso di un linguaggio che già presenta una fisionomia inconfondibile.

È già, voglio dire, il carattere della sua visione, e de termini stilistici che la sorreggono, ad assumere una prima definizione figurativa non destinata a contraddirsi, ma piuttosto ad esaltarsi nelle prove del suo progressivo sviluppo. Dalle tele appena citate è infatti già bandita l’impostazione statica e centrale, la linea orizzontale della composizione, per una scelta più dinamica, arrischiata su scorci violenti, su irregolari prospettive dall’alto, su deformazioni ardite e abbreviazioni repentine. I primi critici hanno parlato subito di un recupero bocconiano, di ascendenze espressioniste, di piglio goyesco e di propensioni barocche. Le osservazioni corrispondevano, e del resto sono osservazioni – proprio per la coerenza dello svolgimento sia del linguaggio che dalla visione di Calabria – che almeno in parte corrispondono anche oggi. Ma restava e forse resta ancora da scoprire la radice causale di un tale linguaggio, di una tale visione.

Quando, uno dopo l’altro, guardo i suoi quadri, dai primi agli ultimi, l’impressione che mi assale è quella di essere davanti a un artista alle soglie di un panico che minaccia d’invaderlo e da cui egli si difende a furia di reperti oggettivi, di ragioni sociali o sociologiche, di spunti e accadimenti di cronaca, di vertigini d’amore. La sua è una sorta di difesa ad oltranza, in qualche momento esasperata, contro lo sgomento di un vuoto incombente, la natura di un tale panico non è diversa da quella del panico che si era inesorabilmente impadronito di Pollok, gettandolo allo sbaraglio. Provocando in lui quella sfrenata agitazione senza sponde da cui cercò salvezza solo in una gestualità automatica. Calabria, al contrario, rifiuta l’abbandono a un puro vitalismo organico, alla pura irrazionalità delle pulsioni e, avvertendone il rischio, vi oppone i propri rapporti con le cose, con gli uomini, con l’ambiente, con la storia in atto. Per dare forza e peso a simile rifiuto, chiama quindi a raccolta ogni sua risorsa di fantasia, ogni motivo della sua esperienza nella socialità, ogni potenza del suo temperamento. L’esigenza di respingere l’invasione del panico è così forte e pressante ch’egli ricorre a quanto gli può servire, non curandosi neppure delle contraddizioni in cui s’imbatte, delle scorciatoie e delle tortuosità formali che deve scegliere. È proprio da questa estrema necessità che nasce la sua avidità, la sua divorante esigenza di colmare il pericolo del vuoto con il più fitto assembramento oggettivo delle immagini. Ma tutto ciò non serve ancora a dare pace e distensione al suo discorso, poiché la presenza del rischio, della minaccia, rimane e continua a serpeggiare fra oggetti, personaggi, situazioni, creando nella scena figurativa sovversioni, inquietudini e contrasti: il suo linguaggio, appunto, così carico, così gremito e << bouleversé >>.

Da questo punto di vista, egli non ha voluto e non vuole filtrare i dati del mondo reale per trascegliere soltanto quelli che gli paiono <<convenienti>>. Egli invece accetta la <<congerie>> del reale nella sua totalità, utilizzando, per esprimerne il senso il nonsenso, le varie categorie del grottesco, del visionario, del realistico, dispiegando in simile impresa una inesauribile capacità di mantenere, in ogni fase differente dell’espressione, il segno della sua personalità. E’ in questa luce che vanno considerati i suoi vari ritratti: quello desolato e solitario di Paolo VI, che si alza sopra un gruppo ondeggiante di fedeli; quello sornione e monumentale di Stalin; quello tormentato di Ingrao; quello doloroso e potente di Di Vittorio o quello di De Gasperi, stretto in lacci e sottili, dal profilo di locusta… Ed è pure all’interno di una simile problematica e nelle variazioni di un simile linguaggio che si collocano i suoi quadri urbani, i più frequenti, quelli in cui appaiono più numerose e complicate le componenti e dove la rappresentazione s’allarga ai fenomeni collettivi, alle mitologie di massa, ai conflittuali problemi della vita sociale.

Tema centrale è dunque il tema della folla: la folla nelle strade, ai grandi magazzini, sulle spiagge dell’estate, nei padiglioni delle fiere, dietro i funerali di un leader politico. A cui si aggiunge il tema della città in crescita disordinata, la città ingorgata dal traffico, o immobile per il blocco dei mezzi durante gli scioperi. Oppure ancora la città nell’esemplarità dei suoi segni antichi, dei suoi fastigi fuori del tempo, agitati segnali fantomatici in un cielo remoto. È certo soprattutto in questo tema che Calabria ha trovato la possibilità di un’espressione formale tale da consentirgli maggiormente di esercitare le qualità eccezionali della sua immaginazione plastica. Nel ciclo di queste opere s’incontrano quadri che si fissano nella memoria con efficace rilievo: quelle spianate d’ombrelli sotto la pioggia; quelle compatte colonne metalliche di vetture davanti al traghetto fermo; quel monte di lucidi sacchi neri dove si raccolgono i detriti quotidiani della <<civiltà dei consumi>>; e quelle alte statue berniniane coi panneggi sventolanti come per un improvviso sconvolgente turbine di vento.

Anche Calabria tende più volte a riempire il vacuum, provocato da un processo d’alienazione sempre più aggressivo, coi prodotti-simbolo della società alienante, come del resto aveva già tentato la pop art, ma a differenza dei popists, nelle sue immagini non c’è mai ombra di cinica esaltazione di tali prodotti, bensì l’inquietante e dilatata rappresentazione di una generale e ingombrante angoscia. E questa è pure la ragione per cui l’iperbole è così spesso il mezzo più immediato a cui egli ricorre per scuotere l’intero sistema dei suoi procedimenti espressivi. Recentemente, alcuni critici hanno sottolineato la conversione di Calabria verso temi più intimi, quasi che anch’egli, abbandonate le primitive preoccupazioni, fosse ormai, come tanti altri, trascinato dal riflusso nel privato. In realtà ci si dimentica che questi stessi temi, e per più versi nello stesso modo, anche se non con uguale frequenza, egli li va già trattando da anni. Si pensi soltanto all’Autobiografia del ’63, o al Ricordo di Spagna dell’anno dopo. L’eros, il rapporto uomo-donna, il raptus dei sentimenti: tutto ciò non è davvero nuovo nel concerto sonoro dei suoi motivi, ma è vero tuttavia che l’accento si è fatto più insistente e più suggestiva l’apertura sul tema amoroso della bellezza.

Parlo in particolare dei quadri dipinti tra il ’78 e l’84: i quadri dei ricordi veneziani, i caselli della <<pensione accanto>>, le tele quali Piazza Risorgimento. Si tratta di opere dove alla primitiva e stravolta energia sembra sia succeduta una veemenza sempre vivamente animata, ma ora venata da acute dolcezze, in qualche caso struggente. In queste sue nuove immagini, dove sono protagoniste giovani donne, ragazze in fiore, o coppie abbracciate sull’erba, o in corsa davanti a un mare buio e profondo, o, ancora, strette nell’amplesso a filo dell’acqua lagunare, c’è spesso un forte contrasto fra tenebra e luce, tra colori d’ombra e colori d’inedita fosforescenza, rossi-fiamma e verdi-elettrici. Si ha come l’impressione che Calabria, nel flusso moroso, nell’incanto inesauribile del fascino femminile, cerchi smemoratezza e idillio. E tuttavia anche se ciò accade, non accade però fuori delle sue premesse. Anche in queste immagini, cioè. La tensione interiore e l’implicito proposito sono sempre i medesimi, quelli ancora di tenere a bada, di contrastare e respingere, l’invasione di un incubo, di cui, nonostante gli accenti d’estasi e rapimento, si continua ad avvertire la sovrastante minaccia, qualcosa che rimane indefinibile, ma sempre oscuramente presente.

La bellezza e l’amore sono dunque l’ultima strategia di Calabria per riappropriarsi della propria identità, per ricostituire la propria integrità messa a repentaglio e mutilata nel gioco di violenze inaudite, per riconoscere sé nell’umano immediato. CHE l’opera di Calabria sia intrisa di umori filosofici non è difficile accorgersi. Ci sono anche i suoi scritti, abbastanza frequenti, a rivelare intenzionalità e preoccupazioni di carattere generale. Le sue opere sono ben lungi dall’essere una dimostrazione dei concetti dai quali egli pare più volte assillato: troppo acceso,emotivo e pulsante è il carattere della sua pittura per adattarsi ad accettare i limiti dimostrativi. Non c’è dubbio tuttavia che ogni sua immagine racchiuda sensi e significati sia allusivi che espliciti, che attingono vivacemente alla combustione dei suoi pensieri, alle sue riflessioni e ai giudizi coi quali egli manifesta il consenso o il dissenso nei confronti della realtà in cui siamo posti a vivere. Lo fa con gli strumenti specifici della pittura, col metodo complesso dei traslati, ma sarebbe sbagliato non volerne tener conto. È anzi proprio per questo che Calabria si distingue come pittore singolare in tutto il paesaggio dell’arte italiana.
Sono venticinque anni di lavoro sui propri temi e sui motivi dei propri rapporti col mondo, che egli ha ricapitolato in questa mostra antologica.

Forse nessun altro artista della sua generazione ha esplorato come lui tanti volti diversi della nostra condizione contemporanea e, al tempo stesso, nessuno come lui ha mostrato una così ferma e risoluta volontà di trovare una risposta ai nostri problemi, ma, e questo ciò che più conta, dove non è ancora possibile trovare la risposta, nessuno come lui è stato capace di formulare l’interrogativo giusto a cui prima o poi bisognerà pure imparare a rispondere.